I manifesti e le cartoline balneari nella tradizione della Riviera romagnola.
Nell’episodio 1 de I ragazzi del muretto, risposta italiana all’americano Beverly Hills 90210, Mitzi siederà sulle scale di un intermezzo nel liceo da lui appena terminato, intento a distribuire i fogli dell’esercizio di disegno ai suoi amici sedicenni.
In un altro fermo immagine, avvolto nel maglione abbondante e senza forma tipico della moda del 1991, siederà a un tavolo questa volta, con un bel vasetto della Yomo vuoto e usato come porta matite.
L’arte e le sue declinazioni per chi come me si affacciava ai ’90 da quindicenne non poteva avere idea che il mondo in cui si viveva era un dato di fatto, la struttura era quella, la scuola era quella, e i ministeri e le amministrazioni più interessanti erano sempre governate della sinistra. La cultura, per chi come me appunto aveva quindici anni nel 1990, era appannaggio di ambienti comunisti. Che lasciassero l’economia e gli esteri alla DC! Noi qui, al liceo, si faceva l’occupazione e si manifestava contro la Guerra del Golfo!
Beata gioventù.
L’arte, quella accademica, quella architettonica, quella grafica, nelle sue più svariate forme, era ben visibile e ben presente nelle produzioni dell’epoca quando dovevano incontrare i gusti dei giovani.
C’era sempre un pittore, un poeta, un disegnatore, uno scrittore, un cantastorie nei gruppi rappresentati. Poco male poi che nella fiction italiana un trentenne recitasse la parte di un sedicenne e, dall’altra parte del mondo, Dylan avesse il volto sì di un venticinquenne ma che venticinquenne.
In quegli anni l’arte non era l’arte di oggi, era magari compromessa nelle gallerie e nelle raccomandazioni, ma aveva un peso intellettuale oggi purtroppo perso.
I manifesti balneari hanno scandito le stagioni estive quando le stagioni erano quelle che andavano dal 15 giugno al 15 settembre, in epoche nelle quali la pittura aveva senso e la tela era visibile nei musei.
Di un tempo finito, di un tempo nostalgico, di un tempo mai conosciuto, di un tempo moderno, con tutto ciò che la modernità nel bene e nel male, e nelle sue contraddizioni, può significare.
L’arte, le botteghe polverose nelle quali si creavano i più alti modelli rappresentativi di una città, i borghi in ciottolato, il sole feroce a picco sulle tegole dei tetti, i gatti sonnacchiosi all’ombra delle automobili, tutto, proprio tutto di quel mondo finito traboccava di arte.
Quelli dei nostri nonni.
Come le vecchie cartoline di una volta, quelle con il contorno ondulato e fotografie, spesso sgranate, di uomini col cappello e donne che vanno di fretta, sempre affaccendate con le borse della spesa, sigarette tra le dita invece per quei signori dalla fisionomia così lontana, già vecchi appena a quarant’anni, quando il meglio era già andato e costruito, forse, e quotidiani dalla carta leggera, dai caratteri tipografici e dall’inchiostro pesante, come i tasti di una macchina da scrivere dai segni definitivi. L’impatto dell’immagine, le fotografie erano roba nuova, si usava tanto la pittura e i manifesti dei colossali hollywoodiani erano dipinti pregevoli. Quando Corrado Mastantuono disegnerà la locandina di Song ‘e Napule dei Manetti Bros. il richiamo sarà squisitamente evidente, quasi commovente.
Persino il primo album delle figurine Panini datato campionato 1961/62 è un dipinto di Nils Liedholm impegnato in un celebre colpo di testa.
Scendendo dal treno sulla linea ferroviaria da Novafeltria a Rimini, quella che passava da quella che oggi è Via Valturio che diventa la Marecchiese alla leggera curva dell’edicola della Patrizia, di fronte al Tank Sport, e sù, più sù, verso Verucchio, o al contrario, tornando dalla collina alla pianura della spiaggia, la fermata di fronte al Castel Sigismondo vomita i nostri nonni sulla banchina, all’angolo di dove una volta c’era il Bar Tricheco.
Appese ai muri di mattoni, illustrazioni di eventi e comitati, pubblicità del nuovo emporio di calzature o del nuovo film al cinematografo, alla sala del cinema Tiberio, oltre il ponte romano millenario, entrando nel chiostro della chiesa di San Giuliano.
La partita al biliardo, al bar, a chiacchierare dell’attualità.
Molte strade sono ancora in ghiaia, la stazione ferroviaria è lontana dal centro, dove all’epoca dell’Impero Romano c’era la linea del mare e la sua riva, ma a raggiungerla bisogna incamminarsi: bombardata, nelle macerie del dopoguerra, verrà costruita via IV novembre e i suoi muri di mattone e cemento tipica dell’architettura razionalista del tempo, passata alla storia come architettura fascista: mura simili si trovano ancora in via Luigi Tonini all’angolo di via Ducale, intorno al giardino del Museo di Arte Moderna, nell’Ala nuova, l’ex Ospedale dei bambini del quale si narra ancora ci siano i cadaverini seppelliti in quello stesso giardino, oppure lungo la via che dalla stazione di Forlì va verso il centro storico. Reperti, anacronistici pure, ma preziosi a contestualizzarli.
Gli anni del ventennio, prima della guerra: i nostri nonni sono fotografie in bianco e nero di signori di un tempo lontano, incomprensibile per la me ragazzina degli anni ’80, in Timberland basse da barca e Big Babol in bocca, in un slap slap in loop con la faccia deformata nel masticare il chewing-gum, nelle felpe Best Company e nei capelli grondanti lacca raccolti in un elastico verde evidenziatore. Sposerò Simon Le Bon in televisione, il Commodore 64 in salotto e i fumetti sulla sedia: come potevo capire la guerra, io?
Eppure da ragazzina mi fermavo davanti a quei manifesti di quel tempo lontano e incomprensibile: le locandine della Festa De Borg per esempio.
Nel lancio di nuove edizioni, nel passaggio dalla tradizione di borgo e dei suoi anziani abitanti al quartiere cool dell’ultimo decennio trasformando la sagra a evento moderno (mai visto il Ponte di Tiberio come corridoio con i tavolini bassi, sedute sulle vecchie pietre che fanno da marciapiede con lanterne cinesi presumibilmente IKEA a fare una luce dall’atmosfera lounge, e cocktail e calici di vino da Milano da bere post EXPO 2015) i manifesti delle edizioni passate sono piccole gioie esposte in una qualche bottega storica, dal Bar Vecchi o della latteria sulla curva, quella vicina alla farmacia che poi si inoltra nella piazzetta della chiesa.
I miei nonni, sottobraccio appoggiati teneramente uno all’altro, vestiti a festa, a salutare gente, il bottegaio, il calzolaio, il macellaio, il pescivendolo, il meccanico a strofinarsi le mani di grasso nel canovaccio annerito, verso la sagra. Un bicchierino di sangiovese e via, a casa. L’estate era per i villeggianti, i signori di Ferrara e di Bologna, tanti di Bologna, compagni di giochi estivi delle colonie per i ragazzini prima che ritorni settembre, e la scuola. O la guerra, ma nessuno poteva saperlo nel 1922.
Prima dell’immagine photoshoppata c’era la pittura, i quadri pubblicitari, le locandine, i manifesti, tutti dipinti, tutti bellissimi.
1922. Un super classico che non è possibile non aver intravisto almeno una volta, di sbieco magari, molto velocemente nella scenografia di un vecchio film oppure in un bar, di quelli di quartiere abitato da anziani giocatori e frequentato da pescatori dal naso e dalle orecchie rosse, a casa di una nonna o di quelle vecchiette da anni ’80, gli occhiali dalla montatura pesante, i capelli vaporosi freschi di parrucchiera in un rosso Milva d’altri tempi.
Realizzato da Marcello Dudovich, triestino, nato a cavallo dell’800 e come me affacciarsi giovane nel nuovo secolo, quel 900 così potente nella storia del mondo, vestendo pure la camicia rossa garibaldina. Padre del moderno cartellonismo pubblicitario, le sue influenze variano dall’Art Noveau alla Belle Epoque, in un’epoca decisamente spumeggiante e ricca di stimola e nuova, di idee originali, e che avrebbero messo le basi per l’arte moderna che tutt’ora, inconsciamente, si usa molto anche nel fumetto.
Ciò che rimane è uno dei manifesti più belli mai realizzati.
1929. La grande R. è tornato prepotentemente di moda nel momento in cui gli studi grafici, sulla scia dell’omaggio, hanno saccheggiato questi riferimenti.
Di quegli anni esiste una pagina Facebook La Rimini Sparita che raccoglie foto in bianco e nero: è molto bella e per molti riminesi, me compresa, ci si ritrova a vivere momenti dell’infanzia e dell’adolescenza in luoghi che non esistono più. Chi è che non ha mai fatto una telefonata dalla cabina col telefono a gettoni col pulsante giallo che si trovava in Piazza Malatesta? Viene da dirsi oggi: “Esisteva una cabina lì?”. Chi non ha mai bevuto un caffè al bar Tricheco?
Ci sono anche molte foto degli anni ’20, per cui fa più specie vedere le case intorno all’Arco d’Augusto a fine Corso invece che il bello spazio verde di oggi, rendendo il monumento degno di un reperto storico.
Il manifesto è dipinto da Adolfo Busi, pittore emiliano, lavora tantissimo negli stessi anni di Dudovich ma con meno clamore del triestino.
Riscoperto recentemente come sopra, risulta più duro rispetto alla morbidezza di Dudovich e dallo stile, oggi, vintage a manetta, da stampa cool incorniciata nelle case riammoderniate dei centri storici, tuttavia efficace richiamando perfettamente la Rimini degli anni ’20.
1933 e 1934. Così vicini, così lontani, da Cesenatico a Riccione, stessa costa, 40 minuti di auto l’una dall’altra, due idee di turismo diversissime tra loro e dipinti con un anno di differenza ma due stili tra i più belli dell’epoca.
Giovanni Guerrini ha il tipico volto di un uomo di quegli anni, dell’inizio del ventennio fascista. Appare risoluto e sicuro nelle foto che lo ritraggono di quel tempo, era architetto e le correnti artistiche, e le sue influenze, probabilmente permeano quel volto e la sua anima. Imolese, evidentemente frequentatore di quelle spiagge, ne coglie ciò che piace ancora adesso di Cesenatico. Prima di Pantani, prima della piadina come cibo da stellette sulla guida Michelin, col suo grattacielo distinguibilissimo dal molo di Rimini che ombreggia la riva, seppur così vicina chilometricamente, Cesenatico è sempre stata quella cittadina della riviera che permette di entrare in un’altra dimensione, che fa dire anche solo per una passeggiata: “Sembra di stare sempre in vacanza quando si viene qui.”
Le vele ritratte sono un simbolo storico e inequivocabile del territorio: terra di marinai e pescatori di piccoli borghi affacciati sul mare, seppur piatto e tranquillo come l’Adriatico, pur sempre un mare che quando gira il vento va in burrasca, le vele sono conservate ed esposte nel Museo del Comune di Bellaria – Igea Marina come patrimonio culturale.
Erano loro, schiaffeggiate dal vento e dalla salsedine che, come gli stemmi delle casate nobiliari delle proprietà terriere della campagna e delle colline, ritratte su ogni cancello e torretta, erano loro, le vele colorate di pigmenti ocra e bordò, bianche e blu, gli stemmi un po’ più poveri delle famiglie dei pescatori. Ogni mattina, all’alba, appena il sole si stirava nel primo raggio sorgendo a est, le madri e le figlie aspettavano il ritorno degli uomini sul molo: ne riconoscevano i colori, le contavano, aspettandone fedelmente il ritorno, fedeli del mare loro amico e nemico, fedeli del raccolto, il pesce che avrebbero venduto e conservato e che avrebbe permesso loro la sopravvivenza. E quando finalmente la nebbia si diradava sulla linea piatta dell’Adriatico era frequente che una di quelle madri e figlie invece di selezionare il pescato da vendere al banco del mercato e quello da conservare, capisse guardando lontano che quel giorno avrebbero pianto. Avrebbero pianto il mancato ritorno dei loro padri e fratelli, inghiottiti dall’inchiostro del mare al largo.
E sono sempre loro, le vele che fanno sussulatare appena intraviste nella tratta ferroviaria Rimini – Ravenna, appena si apre il canale e troneggiano sulle golette che i turisti ammirano e fotografano ogni giorno.
Guerrini sviluppa la sua pittura tra le suggestioni dell’Art Noveau e lo Jugendstil viennese, lasciando un’impronta che ancora oggi si può ammirare all’EUR di Roma: insieme agli architetti Ernesto Bruno Lapadula e Mario Romano, realizza il progetto del Palazzo della Civiltà Italiana.
Il secondo è del pittore pubblicitario Mario Puppo.
Spezzino di Levanto, si sposterà nel Tigullio più centrale di Chiavari, la Chiavari che per questioni familiari ho imparato a conoscere e frequentare, quella della Virtus Entella che vado fieramente a vedere anche nelle serate diacce di fine dicembre, nel campo sportivo eretto stadio nel centro cittadino, attorniato dai palazzi che, seguendo le curve della collina, si inclinano già appena due strade più in là, a monte, dal cimitero in sù.
Particolarmente apprezzato per il segno asciutto e grafico in un dinamismo dei volumi decisamente moderno per l’epoca (e ancora decisamente moderno tutt’oggi), spaziava tra località montane e marittime. Osservando la sua produzione viene il dubbio che, realizzando questa, non fosse particolarmente ispirato, ma è un parere personale.
Al Museo Civico di Treviso per altro dovrebbero essere conservati oltre 150 manifesti del pittore, non è dato sapere se visibili o meno, ma è consolante sapere che una qualche istituzione conserva questo patrimonio artistico.
1946. A guerra ufficialmente finita, rimase la devastazione di un paese e di un territorio martoriato, ferito e ancora sanguinante. Il benessere era qualcosa che sarebbe arrivato molto tempo dopo, nelle grandi città prima di tutto, per cui in provincia ciò che si osservava ogni giorno erano le macerie e quel poco che era rimasto su dalle bombe lanciate su Rimini.
A Viserba di Rimini evidentemente torreggiavano ancora mezzi scassati i villini sul lungomare. Li si riconosce ancora, stretti tra alberghi tre stelle e pensioncine familiari trasformate in hotel con palestra e sale conferenza, tatticissime come zona quando ci sono le fiere nel nuovo complesso di Rimini Fiera.
C’è una mia storia a fumetti ambientata a Viserba, poco prima che la mia protagonista entri al ginnasio: “Fino a qui tutto bene” inizia osservando gli scogli di Viserba, la stessa spiaggia e lo stesso mare del manifesto.
Gli archivi datano in realtà l’opera realizzata nel 1950 e Nazzareno Tognacci, autore del manifesto e pittore viterbese, presumibilmente quella spiaggia la osservava ogni mattina. Me lo immagino, Tognacci, in quei tempi, un po’ come oggi, tra caffè e lo studio. Era possibile girando nei borghi, prima che diventassero gioiellini impacchettati e turistici, c’erano botteghe, corniciai, artigiani che lavoravano dentro operosi. polvere dappertutto e quel gusto di vecchio e antico che resisteva negli anni ’80 al richiamo di grafica e modernità, con la nuova ondata di benessere alle porte, come quella per esempio dall’andare dal pittore e fargli un’offerta per lo studio e farla diventare una boutique di moda.
A meno che non si vada tra gli anziani nei luoghi giusti a chiedere non ci sono molte notizie di Tognacci, data di morte a parte, quel 1987 di cui sopra.
L’opera a mio parere è bella, metafisica come erano le correnti artistiche dell’epoca in quel susseguirsi di stimoli e fondamentalmente di rinascita di cui aveva voglia il paese, tra surrealismo dalìniano e ancorati magari alla geometria del ventennio fascista ma forse proprio per la sensazione di libertà e dell’essere sopravvissuti alla guerra iniziano a sciogliersi, fluidi, smussando angoli di regime verso le vere allucinazioni che un decennio dopo, tra LSD e droghe varie, avrebbe incontrovertibilmente cambiato per sempre il mondo, semplicemente.
Quelli dei nostri tempi.
Prima dei matrimoni, prima dei figli, prima dell’inevitabile consapevolezza degli anta e dell’avviarci a trasformarci in una forma di adulti profondamente simili ai genitori dopo aver puntato loro il dito in momenti adolescenziali rottiosi, urlando “Non diventerò mai come voi!”, a metà tra caduta del Muro di Berlino e Torri Gemelle, quelli che come me attraversavano i ’90 compiendo vent’anni nel mentre, incontravano altre generazioni, migliaia di ragazzi e ragazze italiani e stranieri che per la prima volta provavano l’ebbrezza della prima vacanza senza parenti e con gli amici.
Come i nostri nonni dai treni delle colline limitrofe, giovanotti imberbi e giovanette incolte posavano il proprio piede sulla banchina del binario 2, scendendo da regionali e interregionali carichi di sogni e preservativi in zaini pieni solo di un telo da mare e un costume da bagno.
Rimini era il Brasile per i ragazzi italiani, il parco giochi dalle luci accecanti che non chiudeva mai, mentre i riminesi o, almeno, molti di loro andavano davvero in Brasile o nelle isole greche e spagnole.
Il Carnaby pullulava di svedesi e tedeschi, le discoteche di Riccione pullulavano di variegata varietà umana visibili e non solo letti nei libri di Isabella Santacroce quando ancora tanti rimanevano persi tra le righe dell’amore tra Alex e Aid nel generazionale “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enrico Brizzi. Persino la narrativa coinvolgeva in riviera coi best seller delle letture dei giovani.
Svegliandomi un giorno e pedalando in bicicletta per la città per andare a bere il caffè, nel vecchio bar del borgo, proprio sotto il pino marittimo che decenni fa ospitava un pavone, a fianco, lungo le edicole pubblicitarie, il manifesto balneare di ERON risplendeva. Un barlume nel barlume.
Lo osservai tra il fumo della sigaretta appena accesa. Lavoravo ancora nei ristoranti per cui quelle orde di giovanotti e giovanette me le sarei ritrovate per le strade, nel traffico, nei bar, sugli autobus, sotto le fermate dei viali verso Riccione, all’Hobos e al Kiosko, e ne avrei immaginato le aspettative, la felicità di quei giorni liberi dai genitori, qualcuna la avrei anche conosciuta, divertendomi anche io.
Era l’estate riminese che avanzava e quei manifesti provavano a ricordarcelo.
1995. Il soft – power permeato nei paesi alleati degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda ha definito l’immaginario di noi bambini/adolescenti degli anni ’80. Dalle missioni spaziali a Rocky 4, nel cinema soprattutto il bombardamento mediatiatico pro stelle e strisce dalla serie Die Hard a Danko ha reso molti della mia generazione filo berlusconiani e persino salviniani confondendo la politica col drive-in. Il cattivo cattivissimo era sempre russo, spregevole e incapace di sentimenti quali l’altruismo e la generosità, un robot a comando alla Ivan Drago, il russo generalmente veniva sempre raffigurato come macchietta da Stasi, variando appunto qualche volta in tedesco o arabo, a seconda degli equilibri geopolitici europei e mondiali. Per cui, il sogno americano e la grande America del cow-boy che fumava le Malboro e Thelma & Louise che preferivano il fottuto Gran Canyon al resto della vita in galera confluivano in uno dei merchandising più riusciti di fine millennio: l’I love NY con il cuore al posto del Love.
L’autore, Milton Glaser, viene ancora oggi studiato nelle facoltà di grafica e, compatibilmente con il progetto realizzato di un nuovo turismo nel riminese che è diventato anch’esso materia di studio all’università e il benessere conservato dal decennio precedente pre Tangentopoli, l’estate e la sua pubblicità per una Rimini lanciata a unica meta possibile per svezzare giovani ma con un occhio di riguardo alla tradizione per le famiglie, viene affidato dalla giunta del Sindaco Giuseppe Chicchi proprio a colui che alla fine degli anni ’70, gli spumeggianti disco 70, ha radicalmente cambiato l’immagine della metropoli e, di fatto, il suo gusto glamour.
Chiunque fosse tornato da New York in quegli anni avrebbe sfoggiato la maglietta con il logo I Love NY o, in casa, con le diapositive del viaggio, tra cui le immancabili in prospettiva sotto le mastodontiche Torri Gemelle “che non si prendono mai tutte” vere e proprie icone della ricchezza più sfacciata, avrebbe offerto una bevanda in quelle tazze strane che gli americani usavano per il caffè, le mug, poi diventate squisitamente di moda ovunque.
Non credo sia il suo lavoro migliore, sempre come personalissimo parere personale, ma grafici più esperti, al contrario, forse inclini a non dimenticare mai gli insegnamenti dei maestri e finanche troppo referenziali a volte, ne elogiano l’essenzialità. Dai colori giallo e blu da sempre identificati come sole e mare, la M che si bagna nell’Adriatico a simboleggiare l’Arco d’Augusto e il Tempio Malatestiano, la palla per i giochi in spiaggia, dal pallone alle bocce ai racchettoni con i quali tantissimi di noi ha beccato in testa qualcuno, sono un mix perfetto di minimalismo e di messaggio diretto a ciò che andava a rappresentare.
2000. Renè Gruau aveva già illustrato il manifesto dell’edizione del 1993.
Renato Zavagli Ricciardelli in arte Renè Gruau.
Oggi fa sorridere a pensarci, richiama a film degli anni ’60/’70 con Ugo Tognazzi, l’epoca da Caffè delle Rose riminese, elite dei signori di una volta che si presentavano in estate con il completo bianco in lino e il Borsalino a tesa larga, tenendo una sigaretta nell’elegante bocchino e chiedendo una tal musica al pianista al pianoforte a coda bianco, troneggiante su un palchetto intorno ai tavolini e sedie eleganti. Rendere più esotico il nome era pratica usuale in quegli anni, i riminesi fondamentalmente sono sempre stati esotici, il mio nome ne è una testimonianza anche se, per certo, i miei genitori pensarono a tutto fuorché all’esoticità.
Gruau fu un’artista di fama internazionale che ovviamente trovò gloria ed eternità lontano da Rimini. Come per Federico Fellini che in ogni opera richiamava la sua, di Rimini, e di fatto non la abbandonò mai, Gruau fece lo stesso, nell’illustrazione pop, quella di moda, quella che solo a vederla era raffinata e di alta classe, cosa che, va onestamente sottolineata, né per l’uno né per l’altro avrebbero mai potuto trovare nella Rimini dei loro anni.
La loro Rimini era un paesone di borghi e botteghe, nulla a che vedere con La Dolce Vita romana o con la moda di Parigi e, mentre nei bar di Roma e Parigi servivano Pernod e cocktail dal sapore e dal nome mitteleuropeo, nei bar riminesi si chiedevano ancora i provinciali soda e chinotto.
È un manifesto che nella sua apparente semplicità possiede una grafica lineare, molto bella. Ma non è questo che anche solo non prestando attenzione cattura noi riminesi: è l’aura di nostalgia che racchiude.
Ne si vede solo la coda, ma quello che vola e scompare per metà nell’angolo in alto a destra, componendo la scritta Rimini, è un aereo a elica. È un ricordo che squarcia il cuore, a ripensarci, un po’ per quegli anni che non torneranno mai più, un po’ per la giovinezza perduta, ma sulle spiagge riminesi volavano costantemente con ruggente rumore nei cieli azzurri e gli striscioni pubblicitari proprio loro. Con la modernità si sono quasi estinti, ma si può chiedere a qualunque riminesi oggi quarantenne/cinquantenne cosa ricordi della spiaggia di allora. Vi dirà le piste delle biglie con Merckx e Gimondi, il ghiacciolo al limone chiamato e urlato La Boooomba!, i bambini persi e richiamati dalla Pubbliphono, l’altalena nel mare con la scritta Coca – Cola e loro, gli aerei della pubblicità aerea.
Strugge ancora di più la figura sottile che tiene il sole in mano, come uno scudo, coperta dal sole con un cappello di paglia. Una signora dalla magrezza genetica, di quella generazione appunto che viene dalla ricostruzione della guerra, sottile ed esile, magrezza tramandata da madri che avevano poco da mangiare e non artificiale come le ragazzine di oggi, le cui madri al contrario sono ginniche e atletiche per moda. Nulla di male, le mode sono le mode e come i Mondiali, segnano il tempo della nostra esistenza.
Renato Zavagli Ricciardelli in arte Renè Gruau ha segnato quella di Rimini, portandone almeno nel cuore nelle sue collaborazioni per le riviste di moda più conosciute, da Vogue a Elle per prime. E lo sa anche l’amministrazione comunale, dedicandogli una sala intera in un’esposizione permanente nel Museo Comunale d’Arte in via Luigi Tonini, a fianco dei Giardini Ferrari dove sorge, protetta da una struttura di mattoni e vetro, la Domus del chirurgo.
2002. I colori fluorescenti richiamano inevitabilmente ai coloratissimi anni ’90, un’idea di Aquafan perenne nell’adrenalina scatenata dagli scivoli mentre si acquista velocità prima dell’impatto con l’acqua.
Le Spice Girls cantano ancora, in formazione ridotta prive di Ginger Spice, Geri Halliwell, che ha preferito la carriera solista.
Il mondo è a metà: dopo il G8 di Genova nel maggio dell’anno prima e la strage delle Torri Gemelle del settembre successivo dello stesso anno, poco per volta la gente torna a fidarsi degli aerei e a prenderli, tornando a pompare un settore caduto profondamente in crisi. Crisi che, di fatto, per un motivo o per l’altro, apparecchierà i turbamenti della mia generazione e continuerà nel decennio a seguire, lasciando una sensazione di incompiutezza costante.
In quello stesso anno, Mario Monti definirà la mia, di generazione, come quella “perduta”, quella sacrificabile per ripristinare l’equilibrio del paese e dare futuro ai giovani.
Sono i colori fluorescenti dicevo, quelli che come strisce veloci in un fotogramma notturno, rimangono: come l’estate riminese, colorata, adrenalina, fluo, come appunto i libri di Isabella Santacroce che a metà dei ’90 esordiva e rendeva nota la parte scura della notte riminese e riccionese.
Come le Spice Girls di cui sopra.
Ugo Bertotti, autore del manifesto, sfugge alla nota biografica e, per quanto non di mio gusto, l’illustrazione simboleggia perfettamente un decennio restio a partire, incatramato al modello e ai colori dei ’90 e indefinito e indefinibile.
2003. L’estate fu torbida e umida.
Se negli anni precedenti il buco dell’ozono era il disco rotto delle umane coscienze cospetto di comportamenti civili ed etici e nel rispetto del pianeta Terra, gli appelli di scienziati del clima veniva bellamente ignorato. Fu la prima stramba estate nella quale non si respirava, letteralmente. Avremmo ahimè imparato a conoscere quell’afa, nel decennio successivo, ma nel 2003 esistevano ancora le estati calde e secche, quelle piovose e quelle semplicemente calde e gradevoli.
La SARS cinese, avvistata nel novembre del 2002 e riferita dal governo cinese solo nel 2003 preoccupò non poco il mondo, ma la globalizzazione tanto manifestata nel 2001 aveva comunque bisogno di incubazione e progettazione per rendersi operativa e quindi nel 2003 non molto era diverso da sempre: le distanze erano enormi e la Cina era un pezzo in là, impensabile arrivasse a noi, dall’altra parte del mondo.
E quindi anche il fumetto e l’arte andava di pari passo. Nota biografica: la Coconino Press di Igort, per dire, era una neonata ed esisteva da appena un paio d’anni.
Gianluigi Toccafondo fu anche autore Coconino e nel 2003 realizzò anche il manifesto per l’estate riminese.
Il suo stile acquoso iniziava a essere molto apprezzato, dal trailer Fandango all’inizio di ogni pellicola della casa produttrice alla pubblicità della Sambuca Molinari.
A Modena nel 2017, alla Palazzina dei Giardini, entrai illuminata da un bel sole di aprile. L’amministrazione comunale aveva organizzato nel bello spazio attorniato dal verde del giardino pubblico una mostra di Toccafondo.
Definirla bellissima e ispiratrice è poco, la conservo ancora nel cuore. Non era esposta questa, perché tutti manifesti di ultima generazione sono visibili all’ingresso del Museo d’Arte Comunale di Rimini.
2004. Sembrano trascorse ere geologiche, ma nel 2004 Internet era un lusso per pochi. Ciò che oggi chiamiamo modem veniva definito router e dalla presa del telefono fisso partiva un secondo cavo da cui Internet “passava”, per cui se si usava il computer e la connessione, chi telefonava in quel momento trovavo irrimediabilmente l’utente occupato. Non esistevano i social, i cellulari erano piccoli e il gioco in voga ero lo Snake della Nokia e i blog erano la moda del momento.
Sembrano davvero trascorse ere geologiche ma il talento e la fama di Milo Manara rimanevano costanti. Gli strinsi la mano quella primavera nella splendida cornice di Castel Sant’Elmo a Napoli durante la premiazione del Napoli Comicon di quell’anno. Manara mi consegnava il Nuove Strade Attilio Micheluzzi insieme a Vittorio Giardino in uno dei momenti più alti della mia carriera di fumettista. A raccontarlo ho ancora i brividi, per l’improvvisa popolarità, il riconoscimento di storie a fumetti che col tempo avrei saputo aver dato voce a una generazione, per l’affacciarmi al mondo a cui desideravo appartenere, e per le occasioni perse e non viste, senza una seconda possibilità.
A Manara venne commissionato il manifesto dell’estate riminese del 2004 e fu un successo. I poster e le cartoline erano ovunque e ovunque venivano distribuite.
Era la prima volta che in un manifesto veniva celebrata la notte riminese, le luci da Grand Hotel felliniano e ciò che in spiaggia all’epoca, prestando moltissima attenzione, si poteva ancora fare: il bagno di mezzanotte, le grigliate dal bagnino e la Gradisca come festa un giorno al mese per ogni mese estivo. Frizza ancora nel naso il trebbiano che il figlio del bagnino riempiva nei bicchieri di plastica dalle botti e fu in una Gradisca particolarmente alcolica che partorii il titolo della mia fanzine Hai mai notato la forma delle mele? riconosciuta proprio a Napoli col Micheluzzi.
Inconsciamente Milo Manara in una sola immagine ricordava a tutti noi riminesi cosa significasse l’estate e le sue gioie, la sua spensieratezza e il suo erotismo.
2005. Dieci anni prima, a metà di quei novanta fantastici per la musica italiana, dei cantautori che dalla tradizione riuscivano a trasformarsi mantenendone la filosofia, da Niccolò Fabi a Carmen Consoli, passando per Samuele Bersani a Max Gazzè, discostandosi dalla melodica alla Eros Ramazzotti, Jovanotti se ne uscì con L’ombelico del mondo spolverandosi da dosso le ragnatele di chi lo voleva uno che faceva musica brutta. I giovanili sanremesi Vasco e La mia moto non promettevano gran che e gli sponsor di Radio Deejay e Cecchetto erano comunque garanzie (confesso che però io ascoltavo i Cure) e Gente della notte e Serenata Rap del 1994 avevano scosso i pruriti dei critici.
A capire prima le cose era evidente una sotterranea ricerca dell’artista verso una sua strada e una sua ritmica, per cui l’esplosiva evoluzione di Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti quando se ne uscì con L’ombelico del mondo con le sue contaminazioni tribali, sconvolsero e piacquero proiettandolo in un olimpo autoriale che venne sancito dalle pubblicazioni successive. All’improvviso il giovane Jovanotti che si vestiva con i bomber da college americani e il berretto da baseball con la visiera sulla nuca era fiorito in un’artista eclettico dai capelli folti e incolti, e che sapeva scrivere e dipingere. Il Grande Boh! edito da Feltrinelli arrivò in cima alle classifiche dei libri del 1998 e quando gli venne commissionato il manifesto dell’estate riminese del 2005 non sorprese nessuno nella scelta, fu un fiore all’occhiello per l’amministrazione, a dirla tutta.
Il risultato è in quell’immagine piccola sopra, francamente passabile e onestamente poco di mio gusto, per quanto riconosca un talento e una visionarietà che ancora oggi mi sorprende di Jovanotti: l’uso quasi avanguardista dei pennarelli in un’epoca nella quale si ritornava a concepire il fumetto materico della pasta della tempera e dell’acquerello in quella fase di passaggio tra digitale e analogico, tra colore piatto del computer e colore voluminoso e sporco di lavoro sopra da autore tout court.
I pennarelli di Jovanotti sarebbero tornati di moda nel fumetto più di un lustro dopo, per dire.
2006. Chi poteva saperlo che quell’estate l’Italia sarebbe diventata Campione del Mondo?
Molto lentamente il mondo entrava nei 2000 pieni, si percepivano le nuove mode e, come un cambio di jeans ormai troppo vecchi e lisi ci si infilava in quelli nuovi, quel denim largo con la loffa o la scritta Rich sul fondoschiena. Erano gli anni dello spray, delle magliette con le stampe pesanti, delle onde sulle tasche dietro dei jeans e dei modelli sformati.
Erano gli anni dei tatuaggi e della moda skate, delle vacanze in Puglia nuova meta esotica per noi trentenni abituati al Sud America e alle isole asiatiche, i Negramaro cantavano Estate che seppur singolo dell’anno prima riecheggiava nelle radio così come Marmellata #25 di Cesare Cremonini.
Erano gli anni del Medio Oriente, lentamente Iraq, Baghdad, Afghanistan, Kabul, come un sussurro nella notte assumono una dimensione geografica precisa e strategica nei piani dei capitalisti occidentali.
Era l’anno di Osama Bin Laden ancora a piede libero, nascosto e cercato da tutti servizi segreti del mondo ed è l’anno della condanna a morte di Saddam Hussein.
Era l’anno di Calciopoli che poi porterà la stagione successiva la Juventus per la prima volta in Serie B.
Ed è l’estate del popoporopo allo stadio da una canzone dei White Stripes Seven Nation Army e non nuovissima, e del “Chiudete le valigie amici, andiamo a Berlino, andiamo a Berlino Beppe!” e del perché la vittoria mondiale con annessa testata di Zidane a Materazzi in finale sia in un qualche modo stata salutata come una ribalta del calcio sporco e corrotto dei soliti pasticcioni italiani.
E all’artista riminese Luca Giovagnoli veniva affidato il manifesto del 2006.
Materico, decisamente efficace, pittorico per quel tanto da comprendere come ormai l’arte del 2006 sia un concentrato di un secolo, quello precedente, che ha cambiato la storia del mondo e di come il nuovo millennio non abbia ancora idea di quali correnti artistiche seguire, andando un po’ a braccia verrebbe da dire.
2007. Nel 1976 la casa editrice Samonà e Savelli pubblica un romanzo dal titolo Porci con le ali, diario sessuo – politico di due adolescenti scritto da Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera.
Non c’è bisogno di tuffarsi nel passato per ricordare che genere di anni fossero, del piombo e della libertà sessuale e va da se che altri titoli della casa editrice sottolineavano proprio quest’aria di rivoluzione, sessuale e femminista.
Anche nella mia generazione, quella che aveva ancora i riferimenti del dopoguerra a livello di narrativa e letteratura per ragazzi, quella a cui hanno insegnato a leggere e a usare la lettura e la matematica come viatico per un pensiero nostro, passavano sottobanco edizioni di questo volume.
Insieme a Playboy e le riviste nascoste nella piega dei quotidiani prelevati dall’edicola, erano i libri, specialmente quello, che ancora si condivideva e si suggeriva come illuminante. Nella mia adolescenza attraversando lo tsunami eroina e AIDS fummo particolarmente impacciati nell’approcciarci alla sessualità, travolti da profilattici e dalle pubblicità di noti marchi di profilattici destinate a rimanere per sempre nel nostro immaginario. Marchi talmente entrati nella quotidianità dell’epoca da trasformarsi nel prodotto stesso: diciamo Condom per dire profilattico, Barbie per definire una persona particolarmente curata, Scotch per il nastro adesivo, Kleenex per fazzoletto di carta tra gli esempi ai quali non si fa nemmeno più caso quando li si pronuncia.
L’edizione di Porci con le ali rimase nell’immaginario anche per l’illustrazione della copertina: a guardare le copertine degli altri libri della collana era evidente uno stile grafico prestabilito eppure rimase anche quello, era evidente fin dalla copertina di che genere di lettura l’adolescente avesse in mano.
Mano di ispirazione futurista aggiungo, di Pablo Echaurren per l’esattezza, autore del manifesto del 2007.
Figlio del pittore surrealista cileno Sebastian Matta nasce a Roma diventando un artista che sa unire la tradizione cilena alle influenze italiane, curiosamente nell’anno nel quale dalla Fontana di Trevi sgorga acqua rossa come protesta contro il sindaco dell’epoca Veltroni.
Di primo acchito l’illustrazione mi ha riportato ai volti di Giuseppe Arcimboldi e ancora oggi, a riguardarla, la sensazione è tale.
2008. Barack Obama viene eletto 44esimo Presidente degli Stati Uniti d’America.
È il primo Presidente di colore della storia, è carismatico, usa lo Yes, we can come slogan e il suo volto bicromico campeggia in una grafica che, come I love NY fece quasi quarant’anni prima, modificherà la moda del linguaggio dell’illustrazione di quel momento storico.
Fu storico, fu bello.
Solo il tempo poi rese in realtà la sua politica più accomodante di quello che ci si aspettava, manchevole in alcuni aspetti come le relazioni estere e mascherando alcuni scandali favorendo l’industria e la sua economia come un Trump qualunque. ma ricordo le aspettative e quell’esile senso di voglia di cambiamento, prepotente, dimostratosi flebile come tantissime cose di quegli anni, in un cerchio continuo nel tentativo di ripartenza.
Fu anche il Presidente della Grande Crisi Economica dalla quale non ci è mai ripresi del tutto, sopravvivendo in un qualche modo.
La Spagna calcistica vincendo l’Euro 2008 apre un ciclo di vittorie culminata in una generazione irripetibile che conquisterà un altro Europeo e il Mondiale di Sud Africa 2010 e nata dalle ceneri di quell’altra, di generazione, quella dei magnifici cinque (la Quinta del Buitre composta da Butragueno, Michel, Martin Vasquez, Pardeza e Sanchis) ma inconcludente sul rettangolo verde come, al contrario fu fuori, rappresentando la Spagna giovane e libera che lentamente usciva dalla dittatura del Generale Franco.
Ricordo la polemica che scaturì la presentazione del poster. Ma erano anche i tempi mai finiti del pescare a piene mani dalla grandissima e illimitata riserva dell’arte della grafica del secolo scorso. L’esperimento però mascherato da omaggio e che quindi si svincola dalla definizione di plagio da parte di Marco Morosini e del suo studio (lo studio cura quasi tutta l’immagine grafica di Rimini, del turismo e della Notte Rosa tra gli altri) non convince pienamente, il che è un peccato. Di certo una cosa fu chiara nell’anno dell’avvento di Facebook in Italia, il digitale era entrato a gamba tesa con i prodotti rivoluzionari della Apple nelle nostre vite, cambiandoci per sempre.
2009. Non ho mai avuto i codici del teatro. Non avendolo mai studiato l’ho sempre frequento con quel timore reverenziale del sapere che pur impegnandomi, tanti aspetti degli spettacoli – una intonazione, una pausa, una luce puntata e accesa in un dato istante – non li avrei colti. Però avevo letto diversi libri le cui trasposizioni teatrali sono spettacoli divenuti fissi nei calendari. I monologhi poi erano spesso prove nelle quali gli attori si cimentavano e testavano il loro livello.
Il teatro e il personaggio di Alessandro Bergonzoni non mi hanno mai particolarmente colpito ma nel 2009 l’eclettismo artistico stava definendosi con regole tacite. Venivamo da un secolo dove ognuno aveva un ruolo ben definito, dall’avvocato all’ingegnere, dal notaio al barista, all’imprenditore al commerciante, i giornalisti erano coloro che potevano anche scrivere libri e condurre programmi radiofonici e televisivi e gli scrittori erano anche insegnanti. C’erano lavori che si prestavano all’eclettismo, ma di fatto c’era una definizione per tutto per cui osservare il mondo che si trasformava e con esso i ruoli era straniante e dispersivo.
In quell’anno, Manuele Fior pubblica il fumetto La signorina Else con Coconino Press. Lo comprai e lo lessi con piacere. Avevo letto Schnitzler nei novanta tra i vari Kierkegaard, Fromm, Rilke. Mi lasciavo trascinare dai filoni, quello francese e giù di Recherche, quello austriaco e giù di Schnitzler e psicoanalisti vari, quelli inglesi e giù di Shakespeare passando da Hornby. Per cui trovare in quelle pagine acquarellate un libro che mi aveva lasciato a bocca aperta nel finale aveva un sapore teatrale. I costumi, i colori, il dinamismo dei personaggi e le loro pose, tutto nel fumetto di Fior era teatrale. Il che per l’epoca, nel fumetto, era un sussulto che non passò inosservato. L’anno dopo il maestro Fior avrebbe realizzato il suo Cinquemila chilometri al secondo che tanta fortuna, successo e premi, tra i quali il prestigioso Fauve D’Or di Angouleme, gli avrebbe portato.
Ecco perché a metà tra arte fumettistica che riscopriva a cavallo del digitale dilagante e ritorno dell’arte su carta, il manifesto di Bergonzoni è un pluff nell’acqua. Nulla di teatrale, nulla di comico, nulla di fattoriale. Sarebbe andata bene credo per un libretto di CL, da Meeting magari, di quelli che distribuiscono come programma degli eventi, ma come simbolo dell’estate riminese, come raffigurazione di ciò che può provare un ragazzino che per la prima volta mette piede sulla banchina del treno carico di aspettative dalla settimana di vacanza, come raffigurazione del padre di famiglia che porta al mare la moglie e i figli fumando nascosto dalla tesa del cappello di paglia sfogliando La Gazzetta dello Sport, come raffigurazione della pensionata dal sorriso bonario, serafica negli occhi stretti facendo l’uncinetto e giocando a burraco al bar della spiaggia o ai tavolini di legno dello stabilimento balneare, ecco, proprio no.
2010. La prima e unica donna fu Francesca Ghermandi. Bolognese, con un curriculum ricco di collaborazioni, illustratrice e fumettista, quando incontri la sua arte mi colpì il materico dei pastelli a matita e cera. Già Lorenzo Mattotti aveva basato una carriera sul pastello, quando uscì Fuochi che io scoprii un decennio dopo fu eccezionale perché erano anni nei quali ci si scervellava per lo stile, per il segno, per il contenuto e il pastello era il colore che si usava da bambini: Mattotti con Fuochi ridiede dignità al pastello. E continuò a farlo anche con Nell’acqua. Cresciuti a Mattotti e pastelli, il segno di Ghermandi era gioia per gli occhi.
Il particolare degli occhialini 3D fu ripreso spesso negli articoli di giornale evidentemente poco inclini a uno sguardo critico dell’arte, a maggior ragione un illustrazione con un dettaglio che sottolineava il mondo che cambiava attraverso uno sguardo tecnologico.
2011. Vedere dal vivo la tela originale del manifesto balneare di Davide ERON Salvadei, lì, nell’atrio del Museo Comunale d’Arte di Rimini, appena si entra, superando anche l’andito della porta a vetri, è un dono prezioso.
Quell’estate percorrevo con la mia adorata Vespa S nera le strade dell’estate riminese, a bordo un’amica. Villa Mussolini a Riccione era stata rammodernata e resa un luogo di eventi culturali, un recupero di uno stabile in disuso e fatiscente che tornava a risplendere in una nuova veste artistica. La mostra di Eron era una delle più attese del calendario.
Ne era passata di acqua sotto i ponti da quando il giovane Davide lasciava il segno nella notte sui muri riminesi e sorprendentemente il suo stile si evolveva. Nell’estate del 2011 fioriva la sua visione puntellata, una sfumatura di vernice smussata di anno in anno, ammorbidita sensibilmente fino alle scelte dei soggetti.
Il manifesto balneare del 2011 segnava uno spartiacque per le tele future che porteranno Eron a esporre persino al MoMa oltre a condividere insieme la Chiesa di San Martino in Riparotta di diserba di Rimini, la sua opera sù in cielo, la mia sulle colonne.
2012. La sera del 31 agosto 1997 Amelie Poulain sta ascoltando le voci della televisione dal bagno; si sta profumando da una boccetta il cui tappo ha la forma di una biglia. All’annuncio della tragica morte di Lady D, schiantatasi nella berlina nera, lei, il suo compagno Dodi Al-Fayed e l’autista lungo la galleria sotto il Ponte dell’Alma di Parigi, Amelie, basita, lascerà cadere il tappo che proprio come una biglia rotolerà fino a una mattonella del battiscopa, scostandola. Spostata, troverà il nascondiglio segreto di un bambino vissuto nel suo appartamento molto tempo prima e del suo tesoro, un’arrugginita scatoletta di latta. Da quel momento, Amelie deciderà che sarà una salvatrice, regalerà gioia, commozione e sorrisi. Tra questi, tra le varie peripezie, ci sarà anche il fotocopiare, ritagliare, comporre lettere del defunto compagno della portinaia. Il risultato delle lettere è un esempio splendido di come suono e pellicola si fondano insieme.
Il fatto è che questo manifesto di Francesco Bocchini che esprime la sua arte attraverso l’utilizzo di materiali riciclabili e poveri, sembrano proprio quelle lettere, ritagliate, lasciate invecchiare, attaccate con colla e scotta su una ingiallita carta di giornale.
2013. Lontano nel tempo, quando ragazzina pedalavo all’avanscoperta in una Rimini ferma e mutevole solo per qualche doppio senso che diventava unico, imparavo a riconoscere Piazzale Kennedy da Piazza Tripoli oggi rinominata Piazzale Marvelli. L’enorme cubo targato Coca – Cola torreggiava nei suoi quattro lati, girando lentamente. La struttura sulla quale girava a Rimini è sempre stata chiamata Bar Nettuno per via del bagno Nettuno a fianco.
Pensare che Marco Neri in uno stile ordinato alla Hopper moderno riprendesse il Nettuno, il Nettuno della mia infanzia, prima che diventasse una serie di esperimenti ristorativi falliti dei bagni 29 e 30 mi ha riportato a quegli anni infantili.
Anche se non è il Nettuno è bello pensarlo.
Il 2013 veniva salutato come un anno graficamente e foneticamente interessante, dai vari hashtag allo slogan duemilaCREdici che alla lunga aveva stancato.
L’anno del naufragio di Lampedusa dei 300 morti, l’anno dell’eclisse anulare, l’anno di un mondo sempre in bilico tra crescente delusione e sopravvivenza, prima degli attacchi terroristici in occidente e dei terremoti devastanti nel centro Italia mentre L’Aquila boccheggiava e urlava l’essere stata lasciata abbandonata.
2014. Realizzare come un fumetto underground i vari aspetti del vivere Rimini è stata la scelta di Peter e Gian Paolo Gazzola.
Forse tra un ventennio la riguarderò e avrò un’opinione diversa, ma l’idea di un Beavis e Butthead anni 2010, dissacrante e dai luoghi comuni, non mi ha particolarmente entusiasmato.
2015. e poi Cattelan, Maurizio Cattelan: artista provocatorio che scatena discussioni anche solo a nominarlo senza che abbia fatto nulla.
In un’epoca nella quale i Comuni soffrono di denaro cash le voci che si rincorrono sulla presunta spesa pari a 35.000 euro per un progetto pensato e realizzato in un altro contesto, e riciclato per la pomposa campagna balneare dell’estate 2014 fa inorridire molti cittadini che sciorinano frasi classicissime alla “Ecco come si spendono i soldi dei contribuenti!”.
Il titolo Toilet Paper poi decisamente non aiuta, impattando in codici impossibili da comprendere come quelli dell’arte moderna soprattutto per chi, e non è una critica ma un dato di fatto, arricchitosi in tempi non sospetti, si abbonava e collezionava la rivista Artè per sfoggiarla al sole di un tavolinetto nel bar della piazza per darsi un tono o improvvisamente economista camminando con Il Sole24ore sottobraccio.
Naturalmente le battute da bar (“Quindi se si chiama Carta Igienica cioè vuol dire che Rimini è una mmerda?”) si sprecavano in ogni angolo.
Il fatto è che io ho sempre pensato che la scelta di Cattelan fosse una manna dal cielo.
Appariva evidente come con la chiamata di Cattelan a tappezzare la città dei suoi provocatori manifesti fosse il tentativo più riuscito e decisivo verso quella trasformazione paventata dal Sindaco Andrea Gnassi all’inizio del suo mandato.
Lentamente, in anni nei quali io avrei lasciato Rimini, la città si modificava smettendo i panni della bella solo d’estate e vestendosi da cittadina italiana che iniziava a calare, dopo anni di immobilità provinciale e campale, qualche asso vincente.
Si spolverò l’aspetto storico: i monumenti e i quartieri su cui sorgevano vennero ripuliti orchestrati da progetti urbanistici mirati a sottolineare l’importanza del monumento stesso.
Si spolvero l’arte: un decennio fa, tra 2007 e 2009, due mostre da grande città sbarcarono in quel di Rimini rendendo vivo il centro storico anche d’inverno.
Si spolverò il calcio: anni migliori certo, ma la primavera del 2006 difficilmente si dimenticò per i tifosi biancorossi del Rimini, il Rimini di Vincenzo Bellavista, imprenditore, visionario e proprietario della COCIF che acquistò il Rimini calcio e lo portò fino alla Serie B proprio quell’anno, dopo anni di leghe da oratorio. Complice Calciopoli, il Rimini si ritrovò nella serie cadetta a pareggiare in un caldo pomeriggio di fine estate 1 – 1 al Romeo Neri contro la Juventus dei Campioni del mondo Buffon e Del Piero, disgraziatamente finita in B. Ripartì il progetto stadio, perché con quel Rimini lì, chissà dove si poteva arrivare!
Ora il Rimini veleggia ancora tra fallimenti e passaggi di proprietà di nuovo nelle serie minori e la faccenda stadio si arenò, ma il ciclo Bellavista, conclusosi con la prematura morte dell’imprenditore, è una di quelle storie da raccontare ai nipoti.
Si spolverò l’urbanistica: un nuovo straordinario progetto di vie, tutte rifatte, dai marciapiedi agli alberi all’asfalto. Anziani che dal dopoguerra avevano percorso in doppio senso strade uguali a se stesse da sempre le scoprivano divelte, diverse e differenti. Rimini diventò un cantiere a cielo aperto per la felicità degli anziani di cui sopra e tantissime zone vennero totalmente tirate su a nuovo. Progetti meno clamorosi ma decisivi come le fosse nell’Adriatico onde evitare allagamenti ed esondazioni dalle fogne e la Tramvia Rimini – Riccione venivano ultimati tra assensi e applausi.
Si spolverò il turismo: da sempre cavallo di battaglia della città, si procedeva a vele spiegate verso un’idea nuova. Se il modello riminese veniva studiato all’università era il momento di rifarne un altro, di modello. Nuovo logo a cavallo dei ’10 del millennio, il bollino rosso che compare spesso lungo le vie asfaltate di fresco, nuova grafica per RiminiTurismo, nuovo hashtag e slogan Riminig. Si sarebbe concretizzato tra il 2018 e il 2020, quando verrà lanciato il Capodanno più lungo dell’anno che convoglierà in un susseguirsi di eventi, mostre, sagre, senza sosta, attraversando le stagioni come un cerchio che non si chiude mai.
Ne andò di mezzo però proprio il manifesto balenare, tagliato purtroppo dalle spese, concludendo nel nuovo un addio o magari un arrivederci a una tradizione così bella.
A Marzocca di Senigallia, in quell’intervallo di spiaggia che da velluto diventa di sassi, si svolge lungo l’arco di una notte un evento che si chiama Demanio Marittimo, KM-278. È un insieme di situazioni, dai van dello street food a quelli degli assaggi di bollicine, fino alla struttura in legno, geometriche forme a cubi da cui si intravede il mare. Sulla spiaggia, musica, spettacoli e incontri.
Nel 2015, seduti su sacchi di juta, mentre pittori dipingevano su tele giganti suggestioni rapiti in un incantevole e romantico tramonto rosa, assistetti alla chiacchierata che affrontava “la faccenda Cattelan”. Il moderatore e una rappresentante dello studio a cui il Comune aveva affidato la scelta dell’artista provocatore nell’ora che passammo insieme chiarirono posizioni e illustrarono il progetto.
Bevuto l’ultimo sorso di birra, alzandomi nelle espadrillas che calzavo, ancora calda sul corpo dall’abbronzatura del giorno, sorrisi andandomene. Mi sentii fiera di essere riminese in mezzo ai marchigiani.
(Le foto sono prese da Internet, dal sito dell‘informazione turistica di Rimini e da immaginificio.com)